Il messaggio natalizio di monsignor Arturo Aiello alla diocesi di Avellino: “Rallentiamo la corsa e fermiamoci davanti al presepe per pregare e agire in favore della pace, per i poveri e per le persone detenute”. La visita e la Messa del vescovo in carcere.
Rallentiamo per un attimo la corsa che aumenta l’ansia, che ingorga il
traffico stradale, che intasa i negozi e la mente, che affolla gli appuntamenti
ed il cuore e fermiamoci davanti a un presepe, in una chiesa deserta, in una
stanza al lume di candela, dinnanzi all’albero addobbato di luci e di colori, e
poniamoci ancora una volta le grandi domande: Chi sono? Qual’è il mio
destino? Perché il Dio lontano si fa vicino in un Bambino? Che significa Natale?
Che significa Natale adesso?
Il messaggio luminoso del Natale del Signore ci porta indietro, nella
pienezza dei tempi, quando Dio si fece Uomo come noi per salvarci e ci venne
incontro in un Bambino che era l’Emmanuele, il Dio con noi, il Salvatore.
Quell’Evento che ha cambiato la storia ci viene incontro adesso nel Natale
liturgico perché entriamo nel Mistero della Salvezza e sentiamo accadere ora
per noi quello che allora accadde per tutti.
Adesso sono in atto guerre che infrangono tutti i trattati di pace e
contraddicono le dichiarazioni sui diritti dell’uomo che, nei decenni passati, ci
sembravano punti di non ritorno. Alle nostre città illuminate e ai luccichii di
negozi e piazze si contrappone il buio di Gaza, la fame di migliaia di persone
ridotte allo stremo, tantissime vite stroncate di bambini, giovani, adulti e
anziani. All’atmosfera dorata delle nostre case si contrappone il secondo
Natale “al freddo e al gelo” delle famiglie ucraine che invocano la pace e
vedono distrutte le loro città e la loro cultura. Il Natale 2023 vede i soldati di
Erode entrare nelle case e sgozzare i bambini nelle braccia o nelle pance delle
loro madri sotto lo sguardo annoiato del mondo opulento.
Adesso la forbice sociale si allarga e i poveri diventano sempre più poveri
e i ricchi sempre più ricchi in una corsa che non prevede più classi intermedie
e fasce che riescano a vivere dignitosamente. Il popolo dei poveri, stragrande
maggioranza, guarda con occhi cupidi di fame, come la Piccola Fiammiferaia
della fiaba, la tavola imbandita del natale dei ricchi, non si tratta solo dei
profughi e di quanti camminano senza meta nelle nostre città e nei nostri paesi
come ombre ambulanti, ma di tanti nostri concittadini che fino a qualche anno
fa vivevano del loro lavoro e riuscivano a sbarcare il lunario.
Adesso il gusto della vita sembra richiedere esperienze sempre più
esilaranti all’insegna dell’eccesso e le gioie semplici e vere sono ricordi di pochi
gruppi di resilienti marginalizzati: Il pane fresco con la mortadella, le zeppole
fritte in casa, il gioco della tombola, un solo bicchiere di vino rosso bevuto
guardandosi negli occhi, il suono delle ciaramelle, le poesie e le letterine di
Natale coi mille propositi, il caldo buono del camino o del focolare, la
processione fatta in casa per portare il Bambino al Presepe nelle mani del più
piccolo tra i figli… Se provate a inserire questi dati nella mente dell’intelligenza
artificiale vi risponde una voce senza inflessioni: “Modalità con cui si celebrava
una festa chiamata “Natale” nella notte dei tempi”. Il gusto della vita lancia i
nostri giovani in gare in cui si mette a rischio la vita, mentre altri la
abbandonano senza neppure un biglietto di congedo nei suicidi che pongono
la nostra terra ai primi posti in classifica. Giorni fa ce ne sono stati due in città
in una sola settimana.
Adesso è Natale, in questi crateri che la guerra scava, nella povertà che
intacca anche l’occidente, nel pericolo serio che corre il nostro pianeta
nell’indifferenza dei potenti, nel pessimo gusto della vita che ci fa scartare
tante vite non vincenti e ci stritola nella morsa del tutto e subito. Adesso come
allora due Profughi si aggirano bussando invano alle porte dei ricchi perché Lei
sta per partorire un Bambino che farà risplendere il mondo col suo primo
sorriso e lo salverà sulla Croce col suo ultimo rantolo.
Stamattina, come ogni anno, sono stato in carcere (non uso eufemismi) a
celebrare la Messa per i detenuti in una chiesa che nel suo squallore esprime
bene l’atmosfera del luogo e dei suoi “ospiti”. Mi ha meravigliato vedere in
fondo alla chiesa appeso un… arazzo. Mi sono dovuto avvicinare per capire che
non era una copia, ma un esemplare autentico di quelli che ho veduto da
vicino solo nelle sale vaticane. Ho chiesto spiegazioni, mi hanno riferito che
era stata un’idea della nuova Direttrice. Cosa ci fa un arazzo di epoca
raffaellesca nel carcere di Bellizzi? Forse ha trovato la sua collocazione più
appropriata: laddove uomini e donne vivono reclusi in una atmosfera che vede
l’assommarsi dei reati creare un ambiente brutto, ora risplende un’opera
d’arte degna di un museo. Può un carcere diventare una reggia? Per lo stesso
motivo per cui abbiamo trasformato la reggia della terra in un carcere dove la
negatività di uno si riflette e si amplia in maniera esponenziale sul volto di tutti.
Forse un detenuto può commuoversi dinnanzi a quell’opera ed essa risvegliare
in lui la parte migliore, “il fanciullino” direbbe Pascoli. Forse l’arazzo maestoso
chiamerà al Natale del Signore i detenuti come l’angelo i pastori del Presepe.
Forse la Bellezza ci salverà. Ho motivo di credere che non in Cattedrale la notte
del 24 dicembre, ma stamattina, nella chiesa squallida del carcere, Gesù mi sia
venuto incontro dicendomi: “Eccomi, adesso, sono qui!”. È questo Natale.
- Arturo Aiello